domenica 25 novembre 2012

Piccolo manifesto dell'arte di inventare

A dir la verità stavo cercando un libro da regalare alla figlia di un’amica, quando casualmente mi sono imbattuta nella "Grammatica della Fantasia", l'unico libro di Gianni Rodari di cui non conoscevo l’esistenza; così, ahimè, ho dimenticato completamente le filastrocche di Piumini da portare in dono, ed ho cominciato a sfogliare quello che, a prima vista, sembra essere il manifesto poetico dello scrittore di Omegna.
In genere non sono una lettrice di saggi, ma in questo caso ho fatto un'eccezione: ho divorato il volumetto nelle due ore e mezza di viaggio su rotaie da Milano a casa, scoprendo un testo straordinariamente scorrevole ed educativo come pochi.

Ma perché consigliare la lettura di un testo sull'arte di inventare storie scritto nel 1973 da un autore di libri per l’infanzia?

- Perché alla fin fine quello che facciamo tutti i giorni è raccontare storie, la storia di un prodotto, di un servizio, dell’organizzazione per cui lavoriamo, cerchiamo di far apprezzare "quel qualcosa" al mercato, ai consumatori, ai nostri interlocutori, ci sforziamo di essere prima di tutto chiari ed efficaci, ma anche e soprattutto innovativi, ed è proprio qui che “l’invenzione per mezzo delle parole” suggerita da Rodari ci viene in aiuto. I trucchi del mestiere che descrive sono eccezionali esercizi di creatività: associazioni casuali di termini, dissacrazione dei luoghi comuni, binomi irreali, stravolgimento dell’abituale finale della storia, ipotesi fantastiche, rielaborazione dei classici, insomma un turbinio di fantasie che ci riportano all’infanzia  e ci ricordano il vero significato della parola “creare”.

- Perché dentro questo libro c’è tutto; da Novalis a Marx da Leopardi a Sant'Agostino è bello sapere che tutti i grandi, prima o poi, si sono confrontati con lo strano mondo dell’immaginario e sul come esso si trasforma in parola: “Se avessimo anche una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare”; è il “frammento” da cui parte Rodari, con il suo linguaggio semplice ed ironico, per un viaggio nel piacere della lettura e nella gioia dell'invenzione.

- Perché se oltre ad essere comunicatori, pubblicitari, autori della generazione 2.0 o creativi di vario genere, siamo anche genitori, zii, insegnanti, leggere questo libro, che è un piccolo manifesto dell’arte di fantasticare, ci farà sicuramente bene:

“Le fiabe servono alla matematica come la matematica serve alle fiabe. Servono alla poesia, alla musica, all'utopia, all'impegno politico: insomma all'uomo intero, e non solo al fantasticatore (…). 
Se una società basata sul mito della produttività (e sulla realtà del profitto) ha bisogno di uomini a metà –fedeli esecutori, diligenti riproduttori, docili strumenti senza volontà – vuol dire che è fatta male e che bisogna cambiarla. Per cambiarla, occorrono uomini creativi, che sappiano usare la loro immaginazione.” 

giovedì 25 ottobre 2012

Guide di stile: la guerra dei termini


Si scrive checkin o ckeck in? Real-time o realtime? “500 partecipanti all'evento” o “Cinquecento partecipanti all'evento

Dipende.
Almeno così la pensa Hubspot, società specializzata nella realizzazione di marketing software, che lo scorso settembre ha pubblicato la sua nuova Guida di Stile.

Ma cos’è una Guida di Stile?
E’un documento, normalmente redatto all'interno di organizzazioni strutturate, che definisce le principali regole relative alla grammatica, alla sintassi, alla punteggiatura, alla grafia di alcune parole, al fine di garantire l’omogeneità, la correttezza e l’efficacia dei contenuti diffusi sui vari media, sia dai membri dell’organizzazione sia da soggetti esterni (opinion-leader, esperti, partner, etc…).

The Internet Marketing Written Style Guide” non si sono limita però a mettere a disposizione di tutti uno strumento solitamente ad uso interno, ma spiega con chiarezza come si costruisce, si diffonde e si aggiorna una guida di stile, in pochi semplici passi.

Partendo dal motto: “We’re All Publishers Now”, gli esperti di Hubspot hanno infatti realizzato un ebook gratuito, essenziale (69 pagine appena), ricco di esempi e dalla grafica accattivante, che aiuta autori professionisti o occasionali ad usare in modo consapevole la scrittura su web, email e social network.
La Guida ci conferma, per esempio, che la lettera maiuscola nei titoli attribuiti ad una persona viene usata solo se il titolo stesso si trova immediatamente prima del nome:
Il Presidente Obama ha lasciato la Studio Ovale” ma “Il presidente tornò nello Studio Ovale per salutare l’ambasciatore
Oppure che la grafia di organizzazioni o prodotti deve rispecchiare il più possibile il marchio, come Yahoo!, LinkedIn, iPod, YouTube, etc…
O ancora che termini come checkin, login, clickthrough vanno scritti come un’unica parola se utilizzati con funzione di sostantivo o aggettivo.

Sfatiamo subito il mito secondo il quale le guide di stile sono un vezzo (o un’eccessiva complicazione) tutta anglosassone; la produzione italiana è ben nutrita, anche se on-line si trovano più che altro manuali pubblicati da Enti Pubblici sul tema della semplificazione del linguaggio burocratico (come dimostra l’elenco elaborato da Luisa Carrada nel suo sito Il Mestiere di Scrivere). 

giovedì 20 settembre 2012

Due anni nella blogosfera


Dodici mesi e sedici post in più: ecco il ritratto di Words on Air, giunto al suo secondo compleanno.

Per il resto nulla è cambiato, tranne la tagline, ora forse un po’ più “azzeccata”: “Esercizi di stile di un azzeccagarbugli impenitente tra carta e web”, un’evoluzione che mi è sembrata appropriata, visto che la corsa ad ostacoli tra burocratese, plain language e P.A. è ormai diventata una costante.

Per festeggiare il secondo compleanno di WOA pochi giorni gli ho fatto ben tre regali molto “social” e per la sottoscritta tre web-esperimenti: 
1. Una pagina Facebook, attivata pochi giorni fa (che a qualcuno sembra piacere … così “sulla fiducia”). 
2. Qualche board su Pinterest, di cui una dedicata all’insana passione per le Six Words Stories
3. Uno scaffale su aNobii con relativa nutrita lista dei desideri.

Nel frattempo, proprio come succede ad un bambino di due anni, il mio blog ha cominciato ad instaurare le prime “amicizie”: la lista dei blogger che seguo si allunga sempre di più, ciò significa che più mi addentro in questo mondo più trovo mentori o compagni di viaggio, che attraverso le loro parole mi offrono ispirazione, consigli, emozioni, spunti di riflessione e molto altro ancora.

Ringrazio dunque chi in questi due anni, più o meno consapevolmente, mi ha aiutata, commentata, bacchettata, consigliata e supportata.
Grazie a tutti voi!


giovedì 13 settembre 2012

Post segnaletico: pordenonelegge 2012


In questi giorni la mia città è letteralmente tappezzata di locandine dallo sfondo nero sul quale spiccano enormi papere gialle.

Questa migrazione di volatili gonfiabili è il sintomo più evidente del fatto che tra pochi giorni pordenonelegge  2012 aprirà i battenti. 
Il Festival friulano del libro si terrà appunto a Pordenone tra il 19 e il 23 settembre.

Scorrendo le pagine del sito web mi sono soffermata sull’introduzione-invito, in stile volutamente low-profile, nel quale i curatori dichiarano apertamente di non voler tirare in ballo la crisi (economica, della cultura, della lettura):

“Ci limitiamo a invitare a Pordenone, per il festival pordenonelegge - Festa del Libro con gli Autori - tutte le persone che pensano ancora che il dialogo sia preferibile all’esclusione, che l’apertura alla conoscenza sia necessaria per fare delle scelte, che incontrarsi, soprattutto, ritrovarsi in una piazza grande quanto quella piccola città che è Pordenone, sia già un modo di condividere una passione e, forse, un atteggiamento nei confronti del mondo.”

Oltre alle decine di incontri con scrittori, giornalisti e autori, i motivi per cui penso proprio che farò un salto a Pordenone fra un paio di weekend sono essenzialmente quattro:
1. L’elenco infinito di laboratori e letture, soprattutto per bambini e ragazzi, e la speciale "maratona" dedicata alla Divina Commedia.

2. Il ricco programma di eventi paralleli, tra cui la mostra fotografica sui Patrimoni Unesco in Giappone da scoprire attraverso gli scatti del fotografo Kazuyoshi Miyoshi. 

3. L’elegante strizzatina d’occhio che il Festival ha fatto a teatro e cinema: reading, recital e reality writing (sorpresa!) in ambientazioni suggestive.

4. La meschina constatazione che Pordenone dista solo un centinaio di kilometri … e con la benzina a più di 1,80 euro al litro, non è cosa da sottovalutare ;-) 

venerdì 10 agosto 2012

#vogliadiferie

Quando fatichi a costruire una frase di senso compiuto.
Quando le idee sono tante ma la forza per realizzarle è prossima allo zero.
Quando per due volte di seguito scrivi "allego la presentazione" e non alleghi un bel niente.
Quando nella home dei tuoi blog preferiti campeggia la dicitura "chiuso per ferie".
Quando nella casella delle newsletter da giorni non arriva più nulla.
Quando perfino il rumore delle tue dita sulla tastiera ti infastidisce.
Quando l'unico hashtag su cui ti concentri è #vogliadiferie.


Allora forse è veramente tempo di riposarsi un po'.

Mio malgrado ;-) dovrò conformarmi alla consuetudine che ci vuole tutti in vacanza ad agosto!

Arrivederci a settembre!




giovedì 19 luglio 2012

Piccolo elogio al refuso

La Domenica del Sole 24 Ore regala sempre qualche delizioso spunto, specialmente da quando in prima pagina ha preso posto il Posacenere di Andrea Camilleri. 
L’8 luglio la micro rubrica era dedicata al fenomeno dei refusi
Per una volta però, si tratta di errori che non hanno provocato penose smentite o rovinose debacle editoriali, ma che, per qualche strana coincidenza, hanno regalato all'autore una discreta popolarità o una bella risata: 

“Achille Campanile sosteneva che i refusi non andavano corretti perché, tra l’altro, avrebbero potuto paradossalmente fare la fortuna di un libro. E citava il caso di uno storico che intitolò un suo poderoso volume specialistico “La caduta del regno”, e che invece, uscito col titolo sbagliato “La caduta del ragno” divenne quasi un bestseller. A un giovane autore diciannovenne capitò d’aver pubblicato il suo primo racconto in uno dei principali quotidiani siciliani. Terminava con queste parole: – Strinse la donna a sé e si allungò sul letto –. Venne invece stampato così: -  Strinse la donna a sé e si allungò sull’etto -. Il primo impulso del giovane scrittore fu di suicidarsi, poi gli venne da ridere.”

Forse dopo la grande scoperta del Cern, che qualche settimana fa ha commosso lo scienziato ottantenne Peter Higgs, molti sanno che anche la celebre “particella di Dio” è frutto di una sorta di fortunato refuso. La storia di questa espressione si fa risalire al libro che il fisico Leon Lederman voleva intitolare “The god-dam Particle” ovvero “La maledetta particella”; l’editore ha eliminato il “dam” e così la particella è passata da dannata a divina nel tempo di un click, facendo ottenere al volume un insperato successo. 

Inutile illuderci però, quelli che l’industria editoriale chiama refusi, per noi comuni mortali sono solo errori.
Scagli la prima pietra chi non ha mai inviato un’e-mail guarnita di un piccolo errore di battitura, di una prova d’efficienza del correttore automatico o di una distrazione da copia-incolla.
E-mail ed sms, complici T9 e controlli ortografici, sono in assoluto i luoghi virtuali in cui gli errori si annidano con maggiore facilità. 
Video e piccoli schemi portatili non aiutano e la fretta ci fa sbagliare anche più del solito.
Tutto sommato però concordo con Beppe Severgnini, il quale fissa una scala di valori che va dalla fraterna comprensione ad una sana irritazione, nel caso in cui i “refusi” si moltiplichino:

“Un piccolo errore va perdonato.
Due errori possono dipendere dalla fretta.
Tre da un momento particolare (amori difficili, cattiva digestione)
Cinque errori in un e-mail, invece , sono prova di menefreghismo. 
E’ come presentarsi al pubblico coi calzini bucati.”

Purtroppo o per fortuna la cura a questo male è unica: la rilettura (parola che ho adottato quando ho saputo della bella iniziativa della Società Dante Alighieri “Adotta una Parola”)  
Personale se eseguita soli ad alta voce o generosa se offerta da un caritatevole collega/amico/famigliare.

giovedì 17 maggio 2012

Dalla torre di Babele alla torre d’avorio

Da sempre considero le carrozze di Trenitalia un punto di osservazione privilegiato sull’evoluzione del vivere comune, e come ho già avuto modo di raccontare, ogni volta che mi capita di passarci qualche ora registro un fermo-immagine, un fotogramma che porto con me, a riprova di quante opportunità un viaggio su rotaie può offrire.
Così il Freccia Argento diretto a Firenze in tiepido mattino di metà maggio diventa la sintesi perfetta delle tendenze, dei pregi e dei difetti di viaggiatori improvvisati o “seriali”. Il sipario si fa ancora più vario ed interessante se, come oggi, succede di ritrovarsi con una prenotazione di seconda classe all’andata e di prima al ritorno.
La porti un bacione a Firenze”, così si cantava nel dopo-guerra, ed in primavera sembra proprio che il turista non veda l’ora di mettere in pratica questo invito; e così che è facile ritrovarsi piacevolmente circondati da viaggiatori provenienti dai quattro angoli della Terra: una giovane coreana (o forse giapponese) che ascolta musica dal suo smart-phone di ultima generazione targato Hello Kitty, un attempato lord inglese che legge con avidità la sua guida, sognando tiepide serate nel Chianti-Shire, ed infine una biondissima giovane russa, la quale dopo aver concluso una lunga telefonata in lingua madre si è assopita sul suo cuscino “salva-cervicali”. Tutto intorno è una Babele di lingue e di dialetti, si passa dallo slang statunitense all’inflessione vicentina nello spazio di un sedile.
Lo scenario cambia completamente qualche ora dopo sul Freccia Argento Firenze-Padova delle ore 19.00, carrozza 2 prima classe. Le atmosfere rilassate del mattino sembrano svanite, gli adepti di Steve Jobs punzecchiano senza sosta i loro i-phone o sfogliano giornali virtuali con un touch sull’i-pad. Altri viaggiatori se ne stanno chini sui propri note-book, imprecando contro la connessione web che va e viene. Fuori è un veloce susseguirsi di paesaggi, non tutti bucolici, ma accarezzati dal luminoso calore di una primavera inoltrata.
Chiusi nella torre d’avorio della tecnologia portatile i miei compagni di viaggio si perdono lo spettacolo di un tramonto mobile

martedì 17 aprile 2012

Inglese vs. Italiano = Scienza vs. Lettere?

Venerdì 13 aprile, ore 09.15 sfogliando il Corriere della Sera un articolo dal titolo “Se le nostre università si convertono all'inglese” attira la mia attenzione. 
Stesso giorno, ore 17.55 ricevo una mail con oggetto: “Italiano escluso all'Università: la "Dante" non ci sta” dalla Società Dante Alighieri (per capirci, l’ente che l’anno scorso ha promosso la bella iniziativa “Adotta una parola”).

Sembra proprio l’inizio di un affare di stato linguistico.
Non succede così spesso che la nostra bella lingua finisca sui giornali, la diatriba potrebbe farsi interessante...

Il fatto: A partire dal 2014 i corsi per gli studenti dell'ultimo biennio della laurea specialistica e dei dottorati presso il Politecnico di Milano saranno tenuti esclusivamente in inglese. Abolito il “doppio binario”: corsi in italiano per i due terzi e in inglese per il restante terzo, resta solo la “lingua tecnica base”.
Il rettore dell’ateneo Giovanni Azzone giustifica la decisione affermando che i corsi in lingua inglese attireranno studenti e docenti da tutto il mondo, perché “l'Italia può crescere solo se attrae intelligenze”.

Hanno salutato con favore la scelta del Politecnico il ministro-ingegnere Profumo e vari esponenti del mondo scientifico, mentre filosofi, scrittori e linguisti sono intervenuti a gamba tesa, sostenendo l’inaccettabilità e la “follia” della scelta in ambito pubblico. Il dibattito si è fatto serrato anche nei blog (vedi qui Italians) e sui social network.

Personalmente, considero la posizione di Roberto Cingolani, direttore scientifico dell'Istituto italiano di tecnologia, quantomeno ottimistica. Cingolani difende infatti il progetto del Politecnico, affermando che esso è rivolto a persone adulte che parlano già un ottimo italiano. Ma siamo proprio sicuri che gli studenti del biennio di specializzazione universitaria parlino e scrivano correttamente nella lingua madre?

Concordo invece pienamente con Massimiliano Fuksas, architetto di fama mondiale, il quale sottolinea proprio la nostra caratteristica mancanza di equilibrio: “Troppo radicali, o non facciamo nulla o troppo. Prima c'è la nostra lingua, poi possiamo impararne anche altre due o tre.”

E voi cosa ne pensate?
Inglese al 100%, monopolio nazionale o giusto mix?

martedì 13 marzo 2012

L'autocritica della carta stampata

In un momento storico in cui nessun sembra voler fare autocritica, nemmeno il Governo giapponese all'alba del primo anniversario della tragedia di Fukushima, Giulia Zoli su "Internazionale" torna alle correzioni "indoor", bacchettando con grazia i colleghi che hanno erroneamente indicato il 4 dicembre come data delle elezioni presidenziali in Russia e che hanno confuso lo stato brasialiano di Parà con una canzone (Paraíba) di Luiz Gonzaga.

Se è vero che "a volte gli errori più infidi, anziché nascondersi tra le righe si piazzano sfrontatamente nei testi più visibili della pagina", lo è altrettanto il fatto che è necessario un certo coraggio per ammettere i propri errori, cercando di porvi rimedio.

venerdì 24 febbraio 2012

La NON comunicazione

Casualmente rinvenuta nel blog (ora purtroppo chiuso) della biblioteca di Bioingegneria del Politecnico di Milano, questa simpatica vignetta riassume tutto ciò che la comunicazione NON dovrebbe essere, ovvero un mezzo per:
-          dare spessore a idee inconsistenti
-          rendere oscure argomentazioni deboli
     -        ostacolare la chiarezza

A volte, per accontentare qualcuno (superiori, clienti, colleghi) o semplicemente per sembrare più “professionali  e competenti tendiamo ad immolare la chiarezza e la funzionalità sugli altari del linguaggio iper-tecnico, dell' inutile inglesismo e del pomposo burocratese.
Il risultato è sempre lo stesso: la comunicazione diventa un meraviglioso gioiello dialettico ma del tutto inefficace.

giovedì 9 febbraio 2012

Il sesto grado della formalità

“In pubblico, la gente dice lustri e non cinque anni, volto e non faccia, ventre e non pancia. Basta un microfono e l'oratore presenta omaggi, invece di fare regali.
Molti esordiscono con: - Chiarissimo - scrivendo a docenti universitari specializzati in manovre oscure, e tutti chiudono le lettere con:  - Voglia gradire i più distinti saluti -(chi li distingue, quei saluti? Nessuno. Ma il mittente si sente tranquillo.)
Ho letto anche: - Mentre saluto tutti e ciascuno, colgo volentieri l'occasione per confermarmi con sensi di distinta stima.-
Questo è il sesto grado della formalità: l'aria è socialmente rarefatta, e gira la testa.”

Ironica, pungente ma con un tocco di bonaria indulgenza: la rassegnata critica di Beppe Servegnini è quanto di meglio (e di più divertente) abbia mai letto in materia di ampollosità del linguaggio italiano, il sesto grado della formalità appunto.

Il complesso modo d’esprimersi tipico della nostra Penisola, è un po’ la mia spina nel fianco, soprattutto quando si parla di burocrazia e Istituzioni, finalmente però il giornalista più seguito su Twitter riesce nel tentativo di chiarire le motivazioni della nostra lunga tradizione di formalismo e pomposità.

Da una parte le ragioni sociologiche:
 “Parlare difficile, per molti, è motivo d’orgoglio: indica una casta, una competenza, lunghi studi. Non importa se chi ascolta o chi legge non capisce.
In milioni di italiani esiste – scusate: resiste – una stupefacente rassegnazione verso l’oscurità del potere (qualunque potere: politico, giudiziario, amministrativo, mediatico, medico, accademico).”

E dall'altra quelle storiche, prese a prestito da Giuseppe Prezzolini:
“Il carattere degli italiani è stato creato da duemila anni di diritto romano, (…) di contratti col tribunale della confessione, di transazioni politiche nelle lotte comunali, di accortezze nell’opporre forze segrete a forze segrete sotto dominii assoluti, di taciti disprezzi sotto l’ossequio formale ai signori, di libertà interne conquistate col duro prezzo della soggezione politica.
Questo ha portato ad una diffusa diffidenza.
Anzi, a una cautela che splende nel linguaggio come vetro tra la sabbia.”

Nell’era del plain language, dei sintetici twitt e della web-scrittura anglofila dovremmo forse rassegnarci al nostro inevitabile DNA barocco?
O sconvolgere la nostra tradizione linguistica a tutto vantaggio della chiarezza e della comprensibilità?

D’altra parte, il mondo, soprattutto quello anglosassone, loda a gran voce la nostra ricchezza verbale e le nostre capacità dialettiche, concordo dunque con Servegnini, nell’affermare che queste sono qualità sostanziose, da tenere di grande considerazione.
Vantiamocene se possibile.
Non capita spesso di poterlo fare. Vero?

martedì 17 gennaio 2012

Scrivere: un'arte senza tempo

Dopo aver tanto letto e parlato di cosa e dove si scrive (contenuti e mezzi di comunicazione), l’articolo apparso su Repubblica lo scorso 4 gennaio “Rivincita della calligrafia nel secolo del digitale: Alla ricerca del corsivo perduto tutti a scuola di calligrafia mi dà l’occasione per raccontare una storia antica ed affascinante,  che affonda le sue radici in pile di carta e fiumi di inchiostro.
La calligrafia rappresenta una vera e propria arte, lo è sempre stata. Ne sapevano qualcosa i nostri amanuensi chiusi nei freddi monasteri, ma lo svela ancora più apertamente una celebre dama di corte giapponese, Murasaki Shikibu vissuta nel XI secolo, la quale, nel suo capolavoro "Genji monogatari - Storia di Genji", così descrive la capacità di vergare caratteri perfetti:
 “Ma la vera arte dello scrivere conserva ad ogni lettera il suo equilibrio e la sua forma, e quantunque a tutta prima certe lettere ci possano sembrare tracciate solo a metà, tuttavia quando le confrontiamo con gli esemplari didattici troviamo che in esse non manca proprio nulla."
Per indicare l’arte della calligrafia in giapponese esiste una parola: shodo, termine composto da due ideogrammi che significano rispettivamente “arte della scrittura” e “via, percorso morale, insegnamenti di vita”, a sottolineare come la scrittura  fosse soprattutto una pratica spirituale, capace di suscitare rispetto ed ammirazione:
“Egli guardò la squisita scrittura. Quale donna, anche tra quelle di pari lignaggio ed educazione, avrebbe potuto competere con l’ineffabile grazia ed eleganza con cui era tracciato quel piccolo biglietto?” (Genji monogatari - Storia di Genji - M. Shikibu)
Oggi le abilità calligrafiche, sconosciute ai più, sono quanto mai ricercate. 
A questo proposito mi ha colpito in particolare il sito di Monica Dengo; è stato interessante scoprire come dietro ad una copertina, un’etichetta, un logo, uno slogan ci sia il lavoro non solo di designer, art director e manager di vario genere, ma anche e soprattutto di profondi conoscitori di un’arte che ha attraversato i secoli.
Purtroppo l’uso della tastiera ci ha tolto un po’ il piacere di scrivere, così quelle che a scuola erano “belle grafie” si sono fatte di giorno in giorno sempre più goffe, un po’ per la scarsa cura e un po’ per il mancato esercizio.
Un allenamento che sarebbe invece utile a chi fa della scrittura la sua passione o professione, soprattutto nei momenti di black-out (leggi: blocco creativo); Barbara Calzolari, esperta in calligrafia e membro dell'Associazione Calligrafica Italiana, afferma infatti che “con il corsivo il nostro pensiero arriva fluido sul foglio, senza censure, fratture, è la nostra lingua privata, ci racconta, ci svela”, e con il fluire dei segni magari potrebbero scorrere anche le idee .. chissà.