venerdì 24 febbraio 2012

La NON comunicazione

Casualmente rinvenuta nel blog (ora purtroppo chiuso) della biblioteca di Bioingegneria del Politecnico di Milano, questa simpatica vignetta riassume tutto ciò che la comunicazione NON dovrebbe essere, ovvero un mezzo per:
-          dare spessore a idee inconsistenti
-          rendere oscure argomentazioni deboli
     -        ostacolare la chiarezza

A volte, per accontentare qualcuno (superiori, clienti, colleghi) o semplicemente per sembrare più “professionali  e competenti tendiamo ad immolare la chiarezza e la funzionalità sugli altari del linguaggio iper-tecnico, dell' inutile inglesismo e del pomposo burocratese.
Il risultato è sempre lo stesso: la comunicazione diventa un meraviglioso gioiello dialettico ma del tutto inefficace.

giovedì 9 febbraio 2012

Il sesto grado della formalità

“In pubblico, la gente dice lustri e non cinque anni, volto e non faccia, ventre e non pancia. Basta un microfono e l'oratore presenta omaggi, invece di fare regali.
Molti esordiscono con: - Chiarissimo - scrivendo a docenti universitari specializzati in manovre oscure, e tutti chiudono le lettere con:  - Voglia gradire i più distinti saluti -(chi li distingue, quei saluti? Nessuno. Ma il mittente si sente tranquillo.)
Ho letto anche: - Mentre saluto tutti e ciascuno, colgo volentieri l'occasione per confermarmi con sensi di distinta stima.-
Questo è il sesto grado della formalità: l'aria è socialmente rarefatta, e gira la testa.”

Ironica, pungente ma con un tocco di bonaria indulgenza: la rassegnata critica di Beppe Servegnini è quanto di meglio (e di più divertente) abbia mai letto in materia di ampollosità del linguaggio italiano, il sesto grado della formalità appunto.

Il complesso modo d’esprimersi tipico della nostra Penisola, è un po’ la mia spina nel fianco, soprattutto quando si parla di burocrazia e Istituzioni, finalmente però il giornalista più seguito su Twitter riesce nel tentativo di chiarire le motivazioni della nostra lunga tradizione di formalismo e pomposità.

Da una parte le ragioni sociologiche:
 “Parlare difficile, per molti, è motivo d’orgoglio: indica una casta, una competenza, lunghi studi. Non importa se chi ascolta o chi legge non capisce.
In milioni di italiani esiste – scusate: resiste – una stupefacente rassegnazione verso l’oscurità del potere (qualunque potere: politico, giudiziario, amministrativo, mediatico, medico, accademico).”

E dall'altra quelle storiche, prese a prestito da Giuseppe Prezzolini:
“Il carattere degli italiani è stato creato da duemila anni di diritto romano, (…) di contratti col tribunale della confessione, di transazioni politiche nelle lotte comunali, di accortezze nell’opporre forze segrete a forze segrete sotto dominii assoluti, di taciti disprezzi sotto l’ossequio formale ai signori, di libertà interne conquistate col duro prezzo della soggezione politica.
Questo ha portato ad una diffusa diffidenza.
Anzi, a una cautela che splende nel linguaggio come vetro tra la sabbia.”

Nell’era del plain language, dei sintetici twitt e della web-scrittura anglofila dovremmo forse rassegnarci al nostro inevitabile DNA barocco?
O sconvolgere la nostra tradizione linguistica a tutto vantaggio della chiarezza e della comprensibilità?

D’altra parte, il mondo, soprattutto quello anglosassone, loda a gran voce la nostra ricchezza verbale e le nostre capacità dialettiche, concordo dunque con Servegnini, nell’affermare che queste sono qualità sostanziose, da tenere di grande considerazione.
Vantiamocene se possibile.
Non capita spesso di poterlo fare. Vero?